Sul finire degli anni Cinquanta la carriera di romanziere di Oreste del Buono conobbe una svolta fondamentale. Decisamente lontano dalle atmosfere neorealistiche degli esordi e piuttosto restio a lasciarsi sedurre dalle sirene della nascente neoavanguardia, questa eclettica figura del panorama letterario italiano si trovava presa in mezzo tra due fronti; il primo ormai disperso e in rotta, il secondo pronto invece a dare battaglia senza concedere nulla alla debolezza degli avversari. Da inguaribile outsider, quale era e sarebbe sempre stato, del Buono scelse di non schierarsi apertamente, preferendo una posizione defilata nello scontro che si sarebbe scatenato, di lì a poco, tra “antichi e novissimi”. Non è dunque un caso che, proprio in coincidenza con l’inizio del decennio del Gruppo 63 e del Sessantotto, del Buono proponga una propria poetica, alternativa sia rispetto ai modelli appena passati di moda sia a quelli pronti ad imporsi, anche solo per breve tempo, come dominanti. L’idea di un algido formalismo, privo del necessario contatto con la vita, gli era infatti del tutto estranea. Da illuminato conservatore, pur riconoscendo l’utilità di alcuni procedimenti sperimentali e di alcune tecniche “da laboratorio”, si dimostrava meno propenso a liberarsi da quella concezione umanista della letteratura denunciata a gran voce da Robbe-Grillet e dai suoi seguaci al di qua e al di là delle Alpi. Per lui la riflessione metanarrativa non poteva essere fine a se stessa, doveva anzi rappresentare la soluzione più adeguata per sopperire alla carenza mitopoietica comune a molti romanzieri nostrani. Una posizione espressa chiaramente in un memorabile articolo del 1961 (“La narrativa integrale”, Quaderni milanesi), vero e proprio manifesto della sua romanzesca autobiografia, subito messa alla prova in una delle sue opere più interessanti: Né vivere né morire (1963). Qui, per la prima volta, del Buono teorizza la creazione di un iper-personaggio in grado di costituire il centro mobile di un’“opera-arcipelago” che si svilupperà nel corso di quattro decenni, attraverso più di una dozzina di romanzi. Rivalutando la consistenza del personaggio-uomo, di cui da tante parti si dichiarava l’imminente scomparsa, la sua intenzione era infatti quella di riallacciare i legami tra la “vita” e il “linguaggio” che, a partire dalla vivificante esperienza del modernismo, si erano fatti sempre più deboli. Il mio contributo intende ripercorrere le tappe salienti di questa riflessione dove il solido retroterra critico dell’autore fornisce alimento e stimolo alla creazione di una poetica che riflette costantemente la dialettica tra le potenzialità ermeneutiche della letteratura e la crisi della forma-romanzo nella seconda metà del Novecento.
Lo specchio che ritorna: la funzione strutturale della metanarrativa nell’opera di Oreste del Buono, 2016.
Lo specchio che ritorna: la funzione strutturale della metanarrativa nell’opera di Oreste del Buono
CHIURATO, ANDREA
2016-01-01
Abstract
Sul finire degli anni Cinquanta la carriera di romanziere di Oreste del Buono conobbe una svolta fondamentale. Decisamente lontano dalle atmosfere neorealistiche degli esordi e piuttosto restio a lasciarsi sedurre dalle sirene della nascente neoavanguardia, questa eclettica figura del panorama letterario italiano si trovava presa in mezzo tra due fronti; il primo ormai disperso e in rotta, il secondo pronto invece a dare battaglia senza concedere nulla alla debolezza degli avversari. Da inguaribile outsider, quale era e sarebbe sempre stato, del Buono scelse di non schierarsi apertamente, preferendo una posizione defilata nello scontro che si sarebbe scatenato, di lì a poco, tra “antichi e novissimi”. Non è dunque un caso che, proprio in coincidenza con l’inizio del decennio del Gruppo 63 e del Sessantotto, del Buono proponga una propria poetica, alternativa sia rispetto ai modelli appena passati di moda sia a quelli pronti ad imporsi, anche solo per breve tempo, come dominanti. L’idea di un algido formalismo, privo del necessario contatto con la vita, gli era infatti del tutto estranea. Da illuminato conservatore, pur riconoscendo l’utilità di alcuni procedimenti sperimentali e di alcune tecniche “da laboratorio”, si dimostrava meno propenso a liberarsi da quella concezione umanista della letteratura denunciata a gran voce da Robbe-Grillet e dai suoi seguaci al di qua e al di là delle Alpi. Per lui la riflessione metanarrativa non poteva essere fine a se stessa, doveva anzi rappresentare la soluzione più adeguata per sopperire alla carenza mitopoietica comune a molti romanzieri nostrani. Una posizione espressa chiaramente in un memorabile articolo del 1961 (“La narrativa integrale”, Quaderni milanesi), vero e proprio manifesto della sua romanzesca autobiografia, subito messa alla prova in una delle sue opere più interessanti: Né vivere né morire (1963). Qui, per la prima volta, del Buono teorizza la creazione di un iper-personaggio in grado di costituire il centro mobile di un’“opera-arcipelago” che si svilupperà nel corso di quattro decenni, attraverso più di una dozzina di romanzi. Rivalutando la consistenza del personaggio-uomo, di cui da tante parti si dichiarava l’imminente scomparsa, la sua intenzione era infatti quella di riallacciare i legami tra la “vita” e il “linguaggio” che, a partire dalla vivificante esperienza del modernismo, si erano fatti sempre più deboli. Il mio contributo intende ripercorrere le tappe salienti di questa riflessione dove il solido retroterra critico dell’autore fornisce alimento e stimolo alla creazione di una poetica che riflette costantemente la dialettica tra le potenzialità ermeneutiche della letteratura e la crisi della forma-romanzo nella seconda metà del Novecento.File | Dimensione | Formato | |
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