La colonizzazione inglese dell’Australia si è fondata su un’applicazione dilatata del principio internazionalistico della terra nullius, basata su una finzione di inesistenza degli abitanti primigeni e, a maggior ragione, delle loro concezioni del vivere sociale e del legame tra l’uomo e la terra. Secondo i miti aborigeni della creazione, il mondo (vedi l’Australia) è stato originariamente creato dai canti che gli antenati totemici hanno recitato emergendo dal sottosuolo, ed è solo attraverso la reiterata recitazione di tali canti che viene garantita l’esistenza feconda della terra e sulla terra. Nell’immaginario aborigeno, l’Australia è una rete di narrazioni orali parzialmente segrete e tramandate da generazione a generazione, la quale costituisce una geografia della percezione del territorio (geografia umanistica). L’intreccio dei canti determina altresì il legame di ciascun individuo con la terra, ed i rapporti tra i diversi membri delle comunità tribali, secondo schemi difficilmente riconducibili alle categorie occidentali, a partire dagli stessi concetti di proprietà e contratto. La conquista e l’azione politica coloniale, l’allontanamento degli abitanti dai loro luoghi di origine (compreso l’outstation movement), la modificazione del paesaggio e la sua rinnovata marcatura con i segni dello sfruttamento - recinzioni, strade, escavazioni minerarie, dighe, città - hanno plasmato irrimediabilmente buona parte del territorio australiano e reso impraticabile il walkabout (cammino cantato), poiché ogni singolo canto è legato alla morfologia del luogo. La spoliazione della terra ha compromesso la grammatica e la logica dei canti. Di fatto, gli inglesi hanno violentemente infranto il legame tra il popolo aborigeno e il genius loci, vale a dire quella forza misteriosa e mai completamente comprensibile che lega l’uomo al Cosmo. Tuttavia, la conoscenza dei canti è ancora oggi determinante per appropriarsi del ruolo che ciascun individuo ha in quello specifico contesto geografico e sociale: ciò che distingue i bianchi dagli aborigeni è il diverso grado di codifica del territorio e del suo sfruttamento. Se è vero che più si conosce un paesaggio migliore è la conoscenza della propria funzione in quel contesto, allora è anche vero quello che dicono gli aborigeni, secondo i quali “quando si toglie un uomo dalla sua terra, si toglie lo spirito che gli dà la vita.” Gli aborigeni e i bianchi si scontrano sul concetto di ‘territorio’ e conseguentemente sul rapporto oggetto-soggetto, uomo-contesto. La sentenza della High Court of Australia Mabo v. Queensland, del 1992, superando la precedente giurisprudenza incentrata sulla dilatazione del concetto di terra nullius, attribuisce, per la prima volta, diritti sulla terra in base al native title; si tratta di un’operazione che rivela sia la necessità del legame tra il diritto ed il bonum et aequum, sia, alla luce dei successivi sviluppi normativi e giurisprudenziali, la fragilità dell’argomentazione basata sui valori, non accompagnata da idonei meccanismi applicativi. Dopo l’analisi della vicenda del native title, verrà proposta una lettura di The Songlines di Bruce Chatwin con l’obiettivo di indagare il confronto, messo in atto dall’autore, tra le voci dei bianchi e quelle degli aborigeni in un dialogo che non perde mai di vista il canto primigenio. Il protagonista Bruce sembra muoversi in quello che resta del labirinto dei canti. Il suo è un viaggio mitico – tipico del romance – che ricerca il diritto/dovere del popolo aborigeno di ‘intonare il creato’. Chatwin ci presenta una realtà distopica dove con il venire meno del rapporto tra il popolo aborigeno e la terra sono venuti meno anche il nomadismo, l’energia vitale, la giustizia.

Celsus and Chatwin's Australian Walkabout, 2013.

Celsus and Chatwin's Australian Walkabout

Carbone, Paola;Rossi, Giuseppe
2013-01-01

Abstract

La colonizzazione inglese dell’Australia si è fondata su un’applicazione dilatata del principio internazionalistico della terra nullius, basata su una finzione di inesistenza degli abitanti primigeni e, a maggior ragione, delle loro concezioni del vivere sociale e del legame tra l’uomo e la terra. Secondo i miti aborigeni della creazione, il mondo (vedi l’Australia) è stato originariamente creato dai canti che gli antenati totemici hanno recitato emergendo dal sottosuolo, ed è solo attraverso la reiterata recitazione di tali canti che viene garantita l’esistenza feconda della terra e sulla terra. Nell’immaginario aborigeno, l’Australia è una rete di narrazioni orali parzialmente segrete e tramandate da generazione a generazione, la quale costituisce una geografia della percezione del territorio (geografia umanistica). L’intreccio dei canti determina altresì il legame di ciascun individuo con la terra, ed i rapporti tra i diversi membri delle comunità tribali, secondo schemi difficilmente riconducibili alle categorie occidentali, a partire dagli stessi concetti di proprietà e contratto. La conquista e l’azione politica coloniale, l’allontanamento degli abitanti dai loro luoghi di origine (compreso l’outstation movement), la modificazione del paesaggio e la sua rinnovata marcatura con i segni dello sfruttamento - recinzioni, strade, escavazioni minerarie, dighe, città - hanno plasmato irrimediabilmente buona parte del territorio australiano e reso impraticabile il walkabout (cammino cantato), poiché ogni singolo canto è legato alla morfologia del luogo. La spoliazione della terra ha compromesso la grammatica e la logica dei canti. Di fatto, gli inglesi hanno violentemente infranto il legame tra il popolo aborigeno e il genius loci, vale a dire quella forza misteriosa e mai completamente comprensibile che lega l’uomo al Cosmo. Tuttavia, la conoscenza dei canti è ancora oggi determinante per appropriarsi del ruolo che ciascun individuo ha in quello specifico contesto geografico e sociale: ciò che distingue i bianchi dagli aborigeni è il diverso grado di codifica del territorio e del suo sfruttamento. Se è vero che più si conosce un paesaggio migliore è la conoscenza della propria funzione in quel contesto, allora è anche vero quello che dicono gli aborigeni, secondo i quali “quando si toglie un uomo dalla sua terra, si toglie lo spirito che gli dà la vita.” Gli aborigeni e i bianchi si scontrano sul concetto di ‘territorio’ e conseguentemente sul rapporto oggetto-soggetto, uomo-contesto. La sentenza della High Court of Australia Mabo v. Queensland, del 1992, superando la precedente giurisprudenza incentrata sulla dilatazione del concetto di terra nullius, attribuisce, per la prima volta, diritti sulla terra in base al native title; si tratta di un’operazione che rivela sia la necessità del legame tra il diritto ed il bonum et aequum, sia, alla luce dei successivi sviluppi normativi e giurisprudenziali, la fragilità dell’argomentazione basata sui valori, non accompagnata da idonei meccanismi applicativi. Dopo l’analisi della vicenda del native title, verrà proposta una lettura di The Songlines di Bruce Chatwin con l’obiettivo di indagare il confronto, messo in atto dall’autore, tra le voci dei bianchi e quelle degli aborigeni in un dialogo che non perde mai di vista il canto primigenio. Il protagonista Bruce sembra muoversi in quello che resta del labirinto dei canti. Il suo è un viaggio mitico – tipico del romance – che ricerca il diritto/dovere del popolo aborigeno di ‘intonare il creato’. Chatwin ci presenta una realtà distopica dove con il venire meno del rapporto tra il popolo aborigeno e la terra sono venuti meno anche il nomadismo, l’energia vitale, la giustizia.
2013
Bruce Chatwin, Celsus, Aborigeni, Australia, Milirrpum v Nabalco, Aboriginal Land Rights Act, Mabo Decision, Native Title Act
Celsus and Chatwin's Australian Walkabout, 2013.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/10808/9574
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