Il titolo del paper riprende in maniera critica quello del pamphlet di Popper (2002) intitolato, appunto, Cattiva Maestra Televisione, al fine di evidenziare come, in realtà, non sia corretto parlare soltanto di una «cattiva maestra audiovisiva “contro” una maestra buona, che sarebbe costituita dalla scuola e dalla famiglia» (Morcellini, 1999), ma sia più realistico e più giusto distribuire la responsabilità dell’educazione del bambino tra tutte e tre queste agenzie di socializzazione. A questo si aggiunga che il bambino della nostra epoca è “cambiato”, perché sempre più aduso alle nuove tecnologie, sempre più abituato a relazionarsi in maniera attiva con gli “schermi” che, di fatto, invadono la sua vita fin dalla primissima infanzia. E uno dei contenuti ampiamente veicolati dai media è proprio la pubblicità che produce messaggi “referenziali” tali cioè da rappresentare, se non altro con “appropriatezza”, la realtà sociale che descrivono e a cui si rivolgono, al fine di entrare in sintonia con il consumatore. Nello specifico, il tema di interesse di questo contributo è la pubblicità di food&beverage e i piccoli consumatori: dove per piccoli si intendono bambini di un’età compresa tra i sei e i dodici anni, periodo dominato dalle facoltà percettivo cognitive, anni in cui due aspetti cognitivi, ossia memoria e attenzione, fondamentali per l’efficacia degli spot, si rafforzano. Se la pubblicità, dunque, come si diceva sopra, è referenziale, se cioè rispecchia, benché parzialmente, il suo tempo ci aspetteremmo di trovare, negli spot di food&beverage rivolti ai bambini, le medesime istanze salutistiche presenti negli “spot per adulti”, istanze che, di fatto, interessano la maggioranza delle pubblicità di prodotti afferenti a questa categoria merceologica e che sono in sintonia col sentire della nostra epoca. Il nostro tempo si caratterizza infatti per la centralità del corpo, corpo che non considera la salute come variabile indipendente, riferibile a un ordine trascendente, divino e che valuta l’ammalarsi in termini fatalistici, ma come conseguenza di una insufficiente attenzione al soma, mancanza cioè di prevenzione. Una sensibilità che trova spazio, mi ripeto, nelle pubblicità di food per adulti quasi nessuno, invece, in quelle per i bambini. Numerosi del resto sono gli studi che dimostrano come la maggioranza della pubblicità di food&beverage, rivolta ai bambini, privilegi prodotti, proposte “non salubri”. Nello specifico, il presente lavoro comprende una parte quantitativa di registrazione degli spot, e di ulteriore selezione, tra tutti quelli registrati, degli spot di food&beverage, e una parte qualitativa di analisi del contenuto dei medesimi. In particolare, l’analisi verte sugli spot di food&beverage andati in onda, nel periodo che va dal 28 maggio al 10 giugno 2012, in due blocchi ossia il pomeridiano (dalle 14.30 alle 17.30) e il preserale (dalle 18.30 alle 20.30), per un totale di 1680 commercials. I canali presi in considerazione sono i canali tematici per bambini, ovvero Boing, Cartoonito, Cartoon Net-work, Disney Channel, cui si aggiungono Italia 1, per Mediaset, e Rai 2 per la Rai. L’analisi si concentra su un nucleo di 90 spot alimentari che vengono ripetuti più volte nell’arco della giornata. E anche quest’ultima analisi conferma che, di fatto, le modalità di espressione e di contenuto della pubblicità di food&beverage per bambini sono, come si è già evidenziato in precedenza, rimaste impermeabili rispetto alla nuova consapevolezza alimentare che ha investito l’intera società occidentale. Spetta dunque un ruolo centrale ai genitori, alla famiglia quale mediatore nelle scelte di consumo, rispetto a un’offerta di prodotti sovente dannosi per l’organismo se assunti in dosi eccessive. Va infatti ricordato che il contesto sociale in cui i bambini crescono è parte integrante della loro vita relazionale e del loro modo di rapportarsi ai media. La famiglia è un filtro importante per le attività di consumo mediale, il modo in cui interagisce con i media e in cui ne parla, in cui socializza con i figli le proprie riflessioni critiche su quanto viene proposto dalla tv, pubblicità compresa, aiuta il piccolo a sviluppare le proprie competenze. I genitori possono limitare o indirizzare al consumo mediale. Possono difendere orientamenti valoriali e identitari della famiglia e tra questi rientrano anche le scelte alimentari. Ai bambini piace la piace la pubblicità poiché quest’ultima produce messaggi che fanno uso frequente e intenso, sia da un punto di vista visivo che verbale, di una retorica dell’emozione molto marcata: il tono sempre allegro, euforico, le immagini colorate, vivaci, gioiose e la musica (con l’aiuto di rime, allitterazioni, onomatopee, ecc.) contribuiscono a creare una realtà altra rispetto a quella concreta, una realtà rassicurante (poiché dominata dall’happy end) per il bambino. La brevità spazio temporale dei messaggi, la semplicità verbo iconica, l’attrazione dei modelli proposti è tale da risultare piuttosto coinvolgente nei confronti dei piccoli telespettatori. E questo anche a livello di contenuti poiché presenta una sorta di mondo ideale, perfetto e rassicu-rante, in cui i bambini sono sorridenti, i problemi hanno sempre una soluzione, le famiglie sono affiatate e felici, la felicità stessa si raggiunge in maniera immediata, semplicemente grazie a qualche prodotto. Ma, se la fiaba è la forma principe con cui la pubblicità parla al bambino perché non investirla di un minimo di senso che vada al di là del puro divertimento fine a se stesso, perché, proprio come accadeva nelle fiabe popolari, che fornivano al bambino rappresentazioni sociali per capire il mondo, non inserirvi anche un piccolo elemento educativo attraverso il quale possa dare una direzione più sensata alla sua vita? È invece da segnalare, nello specifico, la sua mancanza di coevoluzione con la società a cui parla e che necessita anche della sua collaborazione per garantire una crescita sana del bambino. A parte qualche raro caso che dimostra però come sia possibile “un’altra via”. La fiaba della pubblicità potrebbe e dovrebbe cambiare, pur senza snaturarsi perché si tratta comunque di uno strumento al servizio delle aziende (che però possono essere etiche e in tal senso pensiamo a tutti gli sforzi che in molte stanno com-piendo in direzione di una sempre più diffusa CSR), introducendo al suo interno qualche elemento di verità.
Cattiva maestra televisione? I bambini di oggi e la pubblicità dei prodotti food&beverage, 2013.
Cattiva maestra televisione? I bambini di oggi e la pubblicità dei prodotti food&beverage
Polesana, Maria Angela
2013-01-01
Abstract
Il titolo del paper riprende in maniera critica quello del pamphlet di Popper (2002) intitolato, appunto, Cattiva Maestra Televisione, al fine di evidenziare come, in realtà, non sia corretto parlare soltanto di una «cattiva maestra audiovisiva “contro” una maestra buona, che sarebbe costituita dalla scuola e dalla famiglia» (Morcellini, 1999), ma sia più realistico e più giusto distribuire la responsabilità dell’educazione del bambino tra tutte e tre queste agenzie di socializzazione. A questo si aggiunga che il bambino della nostra epoca è “cambiato”, perché sempre più aduso alle nuove tecnologie, sempre più abituato a relazionarsi in maniera attiva con gli “schermi” che, di fatto, invadono la sua vita fin dalla primissima infanzia. E uno dei contenuti ampiamente veicolati dai media è proprio la pubblicità che produce messaggi “referenziali” tali cioè da rappresentare, se non altro con “appropriatezza”, la realtà sociale che descrivono e a cui si rivolgono, al fine di entrare in sintonia con il consumatore. Nello specifico, il tema di interesse di questo contributo è la pubblicità di food&beverage e i piccoli consumatori: dove per piccoli si intendono bambini di un’età compresa tra i sei e i dodici anni, periodo dominato dalle facoltà percettivo cognitive, anni in cui due aspetti cognitivi, ossia memoria e attenzione, fondamentali per l’efficacia degli spot, si rafforzano. Se la pubblicità, dunque, come si diceva sopra, è referenziale, se cioè rispecchia, benché parzialmente, il suo tempo ci aspetteremmo di trovare, negli spot di food&beverage rivolti ai bambini, le medesime istanze salutistiche presenti negli “spot per adulti”, istanze che, di fatto, interessano la maggioranza delle pubblicità di prodotti afferenti a questa categoria merceologica e che sono in sintonia col sentire della nostra epoca. Il nostro tempo si caratterizza infatti per la centralità del corpo, corpo che non considera la salute come variabile indipendente, riferibile a un ordine trascendente, divino e che valuta l’ammalarsi in termini fatalistici, ma come conseguenza di una insufficiente attenzione al soma, mancanza cioè di prevenzione. Una sensibilità che trova spazio, mi ripeto, nelle pubblicità di food per adulti quasi nessuno, invece, in quelle per i bambini. Numerosi del resto sono gli studi che dimostrano come la maggioranza della pubblicità di food&beverage, rivolta ai bambini, privilegi prodotti, proposte “non salubri”. Nello specifico, il presente lavoro comprende una parte quantitativa di registrazione degli spot, e di ulteriore selezione, tra tutti quelli registrati, degli spot di food&beverage, e una parte qualitativa di analisi del contenuto dei medesimi. In particolare, l’analisi verte sugli spot di food&beverage andati in onda, nel periodo che va dal 28 maggio al 10 giugno 2012, in due blocchi ossia il pomeridiano (dalle 14.30 alle 17.30) e il preserale (dalle 18.30 alle 20.30), per un totale di 1680 commercials. I canali presi in considerazione sono i canali tematici per bambini, ovvero Boing, Cartoonito, Cartoon Net-work, Disney Channel, cui si aggiungono Italia 1, per Mediaset, e Rai 2 per la Rai. L’analisi si concentra su un nucleo di 90 spot alimentari che vengono ripetuti più volte nell’arco della giornata. E anche quest’ultima analisi conferma che, di fatto, le modalità di espressione e di contenuto della pubblicità di food&beverage per bambini sono, come si è già evidenziato in precedenza, rimaste impermeabili rispetto alla nuova consapevolezza alimentare che ha investito l’intera società occidentale. Spetta dunque un ruolo centrale ai genitori, alla famiglia quale mediatore nelle scelte di consumo, rispetto a un’offerta di prodotti sovente dannosi per l’organismo se assunti in dosi eccessive. Va infatti ricordato che il contesto sociale in cui i bambini crescono è parte integrante della loro vita relazionale e del loro modo di rapportarsi ai media. La famiglia è un filtro importante per le attività di consumo mediale, il modo in cui interagisce con i media e in cui ne parla, in cui socializza con i figli le proprie riflessioni critiche su quanto viene proposto dalla tv, pubblicità compresa, aiuta il piccolo a sviluppare le proprie competenze. I genitori possono limitare o indirizzare al consumo mediale. Possono difendere orientamenti valoriali e identitari della famiglia e tra questi rientrano anche le scelte alimentari. Ai bambini piace la piace la pubblicità poiché quest’ultima produce messaggi che fanno uso frequente e intenso, sia da un punto di vista visivo che verbale, di una retorica dell’emozione molto marcata: il tono sempre allegro, euforico, le immagini colorate, vivaci, gioiose e la musica (con l’aiuto di rime, allitterazioni, onomatopee, ecc.) contribuiscono a creare una realtà altra rispetto a quella concreta, una realtà rassicurante (poiché dominata dall’happy end) per il bambino. La brevità spazio temporale dei messaggi, la semplicità verbo iconica, l’attrazione dei modelli proposti è tale da risultare piuttosto coinvolgente nei confronti dei piccoli telespettatori. E questo anche a livello di contenuti poiché presenta una sorta di mondo ideale, perfetto e rassicu-rante, in cui i bambini sono sorridenti, i problemi hanno sempre una soluzione, le famiglie sono affiatate e felici, la felicità stessa si raggiunge in maniera immediata, semplicemente grazie a qualche prodotto. Ma, se la fiaba è la forma principe con cui la pubblicità parla al bambino perché non investirla di un minimo di senso che vada al di là del puro divertimento fine a se stesso, perché, proprio come accadeva nelle fiabe popolari, che fornivano al bambino rappresentazioni sociali per capire il mondo, non inserirvi anche un piccolo elemento educativo attraverso il quale possa dare una direzione più sensata alla sua vita? È invece da segnalare, nello specifico, la sua mancanza di coevoluzione con la società a cui parla e che necessita anche della sua collaborazione per garantire una crescita sana del bambino. A parte qualche raro caso che dimostra però come sia possibile “un’altra via”. La fiaba della pubblicità potrebbe e dovrebbe cambiare, pur senza snaturarsi perché si tratta comunque di uno strumento al servizio delle aziende (che però possono essere etiche e in tal senso pensiamo a tutti gli sforzi che in molte stanno com-piendo in direzione di una sempre più diffusa CSR), introducendo al suo interno qualche elemento di verità.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.