Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, il pacifismo italiano visse una stagione di forti trasformazioni. Ad un lungo, e spesso problematico, processo di identificazione di aree di mobilitazione comune (disarmo nucleare, nonviolenza, obiezione di coscienza) si andarono infatti affiancando e sovrapponendo nuove istanze e tensioni, che contribuirono ad allargare la prospettiva da una logica rigidamente bipolare verso l’emergente Terzo mondo. La seconda ondata di decolonizzazioni postbelliche, la ridefinizione strategica della guerra fredda, il boom economico, il processo conciliare e il nuovo ruolo degli organismi multilaterali (in quello che l’Onu definì il decennio dello sviluppo), accrebbero infatti l’interesse dei pacifismi verso ciò che accadeva fuori dall’Occidente. La questione vietnamita, la teologia della liberazione, le guerre di liberazione, le iniziative di lotta alla fame e al disarmo, prima e oltre il ’68, convogliarono attorno al tema della pace una serie di forze diverse, accelerando indirettamente l’emancipazione dei movimenti pacifisti da forme di rigido controllo partitico (la consumazione dell’eredità dei Partigiani della pace) o ecclesiale (l’esperienza di Pax Christi). L’intervento cerca quindi, sulla base degli archivi visionati, di tracciare un percorso ideale del processo di apertura dei pacifismi italiani al terzomondismo, partendo dai primi fallimentari tentativi del nonviolento Capitini di importare a Perugia l’esperienza della Thirld World Conference statunitense, passando per le iniziative internazionali del cattolico La Pira e del socialista Basso, per approdare infine alle mobilitazioni che accomunarono sulla base del binomio «pace-sviluppo» organizzazioni diverse tra loro, come Mir, Mani tese o Rete Radié Resh.
Movimenti pacifisti e aperture terzomondiste. Aldo Capitini e l'ipotesi del "terzo campo" (1953-1955), 2008.
Movimenti pacifisti e aperture terzomondiste. Aldo Capitini e l'ipotesi del "terzo campo" (1953-1955)
De Giuseppe, Massimo
2008-01-01
Abstract
Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, il pacifismo italiano visse una stagione di forti trasformazioni. Ad un lungo, e spesso problematico, processo di identificazione di aree di mobilitazione comune (disarmo nucleare, nonviolenza, obiezione di coscienza) si andarono infatti affiancando e sovrapponendo nuove istanze e tensioni, che contribuirono ad allargare la prospettiva da una logica rigidamente bipolare verso l’emergente Terzo mondo. La seconda ondata di decolonizzazioni postbelliche, la ridefinizione strategica della guerra fredda, il boom economico, il processo conciliare e il nuovo ruolo degli organismi multilaterali (in quello che l’Onu definì il decennio dello sviluppo), accrebbero infatti l’interesse dei pacifismi verso ciò che accadeva fuori dall’Occidente. La questione vietnamita, la teologia della liberazione, le guerre di liberazione, le iniziative di lotta alla fame e al disarmo, prima e oltre il ’68, convogliarono attorno al tema della pace una serie di forze diverse, accelerando indirettamente l’emancipazione dei movimenti pacifisti da forme di rigido controllo partitico (la consumazione dell’eredità dei Partigiani della pace) o ecclesiale (l’esperienza di Pax Christi). L’intervento cerca quindi, sulla base degli archivi visionati, di tracciare un percorso ideale del processo di apertura dei pacifismi italiani al terzomondismo, partendo dai primi fallimentari tentativi del nonviolento Capitini di importare a Perugia l’esperienza della Thirld World Conference statunitense, passando per le iniziative internazionali del cattolico La Pira e del socialista Basso, per approdare infine alle mobilitazioni che accomunarono sulla base del binomio «pace-sviluppo» organizzazioni diverse tra loro, come Mir, Mani tese o Rete Radié Resh.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.