Come si distingue il vero dal falso, il buono dal cattivo, il giusto dallo sbagliato e il bello dal brutto? In base a quale criterio? Esiste un criterio che valga sempre, in ogni tempo e in ogni luogo, e che ci permetta di risolvere le dispute? Frasi, azioni, comportamenti, costumi, caratteri, quadri, libri e musiche: giudichiamo tutto. Ma su che cosa si fondano i nostri giudizi? E quale dobbiamo seguire, quando sono diversi o perfino contrari ad altri? Dalle Ipotiposi Pirroniane di Sesto Empirico, i filosofi, quanto meno quelli scettici, discutono il problema. All’inizio del Settecento, David Hume non si sottrae alla discussione. Tra i quattordici e i diciotto anni, si convince che in filosofia, come nella critica letteraria e in teologia, non c’è “ancora nulla di stabilito” ma “poco più che dispute senza fine”; così, alla fine degli anni Venti del Settecento, poco incline a sottomettersi a qualunque autorità, con una certa audacia si decide a “ricercare qualche nuovo mezzo con cui si possa stabilire la verità”. Tra l’inizio e la metà degli anni Cinquanta, di fronte alla grande varietà di opinioni e sentimenti che prevalgono al mondo, due scritti, A Dialogue e Of the Standard of Taste, ripropongono il problema dell’esistenza di un criterio in filosofia (morale) e in critica (estetico-letteraria). Opinioni e sentimenti non sono soltanto diversi, ma, a volte, addirittura contrari in tempi e luoghi differenti, o nello stesso luogo in tempi differenti, e rivendicano tutti la propria legittimità e verità. Si potrebbe concludere in favore della naturale eguaglianza dei gusti e dei giudizi, negando l’esistenza di un criterio universale. Ma le cose non stanno così. In entrambi i casi si tratta di una progressiva limitazione di una posizione scettica illimitata (ma c’è un residuo scettico ineliminabile), in morale come in critica, e, allo stesso tempo, di un progressivo indebolimento del presunto criterio (che diventa tanto lasco da spiegare anche i giudizi più contrari). È la soluzione scettica dei dubbi scettici caratteristica della filosofia di Hume. I due scritti mostrano notevoli somiglianze sia per la materia trattata sia per la maniera di trattarla (il dialogo potrebbe diventare un saggio, e il saggio trasformarsi facilmente in un dialogo). Per questo motivo vengono presentati insieme secondo nuova traduzione, corredata da una lunga serie di note, per lo più citazioni, che rimandano ad altri scritti di Hume e che ricordano le possibili fonti e le opinioni di altri autori sugli stessi argomenti. I quattro saggi, che precedono i testi, ricordano il bastone a più manici di Laurence Sterne: chi legge potrà scegliere quello che meglio si adatta alla propria disposizione, senza perciò ignorare le legittime preferenze di chi scrive.
Fluttuazioni. Il criterio della virtù e del gusto secondo Hume (con una nuova traduzione commentata di "A Dialogue" e "Of the Standard of Taste"), 2025.
Fluttuazioni. Il criterio della virtù e del gusto secondo Hume (con una nuova traduzione commentata di "A Dialogue" e "Of the Standard of Taste")
Mazza, Emilio;
2025-01-01
Abstract
Come si distingue il vero dal falso, il buono dal cattivo, il giusto dallo sbagliato e il bello dal brutto? In base a quale criterio? Esiste un criterio che valga sempre, in ogni tempo e in ogni luogo, e che ci permetta di risolvere le dispute? Frasi, azioni, comportamenti, costumi, caratteri, quadri, libri e musiche: giudichiamo tutto. Ma su che cosa si fondano i nostri giudizi? E quale dobbiamo seguire, quando sono diversi o perfino contrari ad altri? Dalle Ipotiposi Pirroniane di Sesto Empirico, i filosofi, quanto meno quelli scettici, discutono il problema. All’inizio del Settecento, David Hume non si sottrae alla discussione. Tra i quattordici e i diciotto anni, si convince che in filosofia, come nella critica letteraria e in teologia, non c’è “ancora nulla di stabilito” ma “poco più che dispute senza fine”; così, alla fine degli anni Venti del Settecento, poco incline a sottomettersi a qualunque autorità, con una certa audacia si decide a “ricercare qualche nuovo mezzo con cui si possa stabilire la verità”. Tra l’inizio e la metà degli anni Cinquanta, di fronte alla grande varietà di opinioni e sentimenti che prevalgono al mondo, due scritti, A Dialogue e Of the Standard of Taste, ripropongono il problema dell’esistenza di un criterio in filosofia (morale) e in critica (estetico-letteraria). Opinioni e sentimenti non sono soltanto diversi, ma, a volte, addirittura contrari in tempi e luoghi differenti, o nello stesso luogo in tempi differenti, e rivendicano tutti la propria legittimità e verità. Si potrebbe concludere in favore della naturale eguaglianza dei gusti e dei giudizi, negando l’esistenza di un criterio universale. Ma le cose non stanno così. In entrambi i casi si tratta di una progressiva limitazione di una posizione scettica illimitata (ma c’è un residuo scettico ineliminabile), in morale come in critica, e, allo stesso tempo, di un progressivo indebolimento del presunto criterio (che diventa tanto lasco da spiegare anche i giudizi più contrari). È la soluzione scettica dei dubbi scettici caratteristica della filosofia di Hume. I due scritti mostrano notevoli somiglianze sia per la materia trattata sia per la maniera di trattarla (il dialogo potrebbe diventare un saggio, e il saggio trasformarsi facilmente in un dialogo). Per questo motivo vengono presentati insieme secondo nuova traduzione, corredata da una lunga serie di note, per lo più citazioni, che rimandano ad altri scritti di Hume e che ricordano le possibili fonti e le opinioni di altri autori sugli stessi argomenti. I quattro saggi, che precedono i testi, ricordano il bastone a più manici di Laurence Sterne: chi legge potrà scegliere quello che meglio si adatta alla propria disposizione, senza perciò ignorare le legittime preferenze di chi scrive.| File | Dimensione | Formato | |
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