La comunicazione del made in Italy, di fatto, è abbastanza “frammentata”, mentre invece non vi è alcun dubbio che una corretta comunicazione del sistema Paese, in luogo del caotico affollarsi di messaggi, di iniziative e di eventi che non fanno sistema, e finiscono per elidersi, potrebbe portare un contributo importante. Come fare? Pensando al made in Italy come se fosse una marca. Uno dei vulnus della marca made in Italy è in primis la gestione “confusa” che la caratterizza da cui discende un altro importante elemento di debolezza ossia l’incapacità di sintonizzarsi con lo Spirito del Tempo, l’incapacità di evolvere al mutare del contesto socio-culturale ed economico. Manca un vero disegno strategico e manca anche uno statuto del made in Italy, spesso usato parassitariamente (il caso del “parmesan” docet) per prodotti “clonati”, prodotti che di italiano hanno soltanto il nome: è il fenomeno del cosiddetto italian sounding che, soprattutto nel food, acquista contorni angoscianti considerata la pericolosità per la salute di certi “falsi”. Il problema della contraffazione è ormai cronico e investe le più disparate categorie merceologiche. Il consumatore nella valutazione di un prodotto può essere condizionato dal made in del prodotto sotto vari punti di vista che includono considerazioni di tipo cognitivo o affettivo ed emozionale. La percezione può infatti riferirsi ad attribuiti tangibili quali, ad esempio, la precisione degli orologi Svizzeri o invece al legame affettivo che si è sviluppato a seguito di un’esperienza, più o meno lunga, in un determinato Paese che ha lasciato tracce positive nel cuore del viaggiatore: le memorie autobiografiche, le esperienze, le emozioni concorrono a formare e ad alimentare il mondo possibile del “made in”. Sovente, il vero volto del “made in”, o del cosiddetto country of origin è la risultante di un compromesso tra due rappresentazioni del paese l’una reale e l’altra “mentale” e fortemente stereotipica. Una rappresentazione cioè in cui le credenze idiosincratiche hanno un peso rilevante, analogamente a quanto accade in tanti spot che fanno il giro del mondo o che, addirittura, sono pensati per mercati stranieri e non considerano i pro e i contro dell’”assecondare” eccessivamente gli stereotipi, producendo una frattura sostanziale tra identità e immagine dell’Italia. E questo è un rischio grave poiché proprio come è importante per una marca che i suoi consumatori si riconoscano nel suo mondo possibile, altrettanto lo è per il made in Italy di cui gli italiani sono “stakeholders” fondamentali. Questi ultimi concorrono alla sua stessa esistenza attraverso la realizzazione dei suoi prodotti, l’alimentazione della sua cultura, del suo patrimonio artistico, turistico, del suo stesso immaginario. Si rende dunque necessario individuare quelli che sono i valori fondanti della marca Paese, stabilirne un posizionamento ed una vision desiderabili per il futuro, e traducibile in più settori, agendo con forza su quegli stereotipi che possono nuocere al suo stato di salute. Il racconto che la marca Italia mette in campo è parziale, è monco, non rispecchia l’attualità: è l’Italia dei film di De Sica, di Fellini, di Germi, di Dino Risi, di Comencini. E questo perché è un racconto che non è stato costruito da un “unico” autore in maniera strutturata ma si è generato spontaneamente e parassitariamente affidandosi ai discorsi dei media e alle impressioni dei viaggiatori (ma un turista può esperire nei suoi viaggi la vera anima di un Paese?). Invece, per costruire una storia è necessario avere una strategia. È dunque utile creare una narrazione unitaria che poggi sui valori ancora seduttivi, su di un heritage culturale forte, su di una narrazione che non dimentica il passato, ma che anzi fa del radicamento storico il suo punto di forza e però, a partire da questo, vi innesta i nuovi fermenti che attraversano la società e l’economia italiane in modo da intercettare trends sociali contemporanei. Un interessante caso di interazione tra passato/tradizione e presente è rappresentato da Eataly di cui si sottolinea la dimensione comunicativa evidenziando come, tra l’altro, l’oggetto comunicato, il cibo, sia non solo uno dei punti di forza dell’export ma anche uno degli aspetti più vivi nell’immaginario dell’uomo. Tutti i touchpoint (dai megastore, al sito web, alla pubblicità, ecc.) di Eataly sono perfettamente coerenti, dimostrando l’efficacia di una regia attenta. Particolarmente interessante il caso di instant marketing che ha visto protagonisti due calciatori: l’uruguaiano Suarez e l’italiano Chiellini: una comunicazione “nuova”, fresca, all’insegna di quell’attualità culturale di cui parlavamo sopra a proposito del made in Italy. Ossia capacità di fondere in maniera intelligente passato e presente.

La comunicazione del made in Italy, 2014.

La comunicazione del made in Italy

Polesana, Maria Angela
2014-01-01

Abstract

La comunicazione del made in Italy, di fatto, è abbastanza “frammentata”, mentre invece non vi è alcun dubbio che una corretta comunicazione del sistema Paese, in luogo del caotico affollarsi di messaggi, di iniziative e di eventi che non fanno sistema, e finiscono per elidersi, potrebbe portare un contributo importante. Come fare? Pensando al made in Italy come se fosse una marca. Uno dei vulnus della marca made in Italy è in primis la gestione “confusa” che la caratterizza da cui discende un altro importante elemento di debolezza ossia l’incapacità di sintonizzarsi con lo Spirito del Tempo, l’incapacità di evolvere al mutare del contesto socio-culturale ed economico. Manca un vero disegno strategico e manca anche uno statuto del made in Italy, spesso usato parassitariamente (il caso del “parmesan” docet) per prodotti “clonati”, prodotti che di italiano hanno soltanto il nome: è il fenomeno del cosiddetto italian sounding che, soprattutto nel food, acquista contorni angoscianti considerata la pericolosità per la salute di certi “falsi”. Il problema della contraffazione è ormai cronico e investe le più disparate categorie merceologiche. Il consumatore nella valutazione di un prodotto può essere condizionato dal made in del prodotto sotto vari punti di vista che includono considerazioni di tipo cognitivo o affettivo ed emozionale. La percezione può infatti riferirsi ad attribuiti tangibili quali, ad esempio, la precisione degli orologi Svizzeri o invece al legame affettivo che si è sviluppato a seguito di un’esperienza, più o meno lunga, in un determinato Paese che ha lasciato tracce positive nel cuore del viaggiatore: le memorie autobiografiche, le esperienze, le emozioni concorrono a formare e ad alimentare il mondo possibile del “made in”. Sovente, il vero volto del “made in”, o del cosiddetto country of origin è la risultante di un compromesso tra due rappresentazioni del paese l’una reale e l’altra “mentale” e fortemente stereotipica. Una rappresentazione cioè in cui le credenze idiosincratiche hanno un peso rilevante, analogamente a quanto accade in tanti spot che fanno il giro del mondo o che, addirittura, sono pensati per mercati stranieri e non considerano i pro e i contro dell’”assecondare” eccessivamente gli stereotipi, producendo una frattura sostanziale tra identità e immagine dell’Italia. E questo è un rischio grave poiché proprio come è importante per una marca che i suoi consumatori si riconoscano nel suo mondo possibile, altrettanto lo è per il made in Italy di cui gli italiani sono “stakeholders” fondamentali. Questi ultimi concorrono alla sua stessa esistenza attraverso la realizzazione dei suoi prodotti, l’alimentazione della sua cultura, del suo patrimonio artistico, turistico, del suo stesso immaginario. Si rende dunque necessario individuare quelli che sono i valori fondanti della marca Paese, stabilirne un posizionamento ed una vision desiderabili per il futuro, e traducibile in più settori, agendo con forza su quegli stereotipi che possono nuocere al suo stato di salute. Il racconto che la marca Italia mette in campo è parziale, è monco, non rispecchia l’attualità: è l’Italia dei film di De Sica, di Fellini, di Germi, di Dino Risi, di Comencini. E questo perché è un racconto che non è stato costruito da un “unico” autore in maniera strutturata ma si è generato spontaneamente e parassitariamente affidandosi ai discorsi dei media e alle impressioni dei viaggiatori (ma un turista può esperire nei suoi viaggi la vera anima di un Paese?). Invece, per costruire una storia è necessario avere una strategia. È dunque utile creare una narrazione unitaria che poggi sui valori ancora seduttivi, su di un heritage culturale forte, su di una narrazione che non dimentica il passato, ma che anzi fa del radicamento storico il suo punto di forza e però, a partire da questo, vi innesta i nuovi fermenti che attraversano la società e l’economia italiane in modo da intercettare trends sociali contemporanei. Un interessante caso di interazione tra passato/tradizione e presente è rappresentato da Eataly di cui si sottolinea la dimensione comunicativa evidenziando come, tra l’altro, l’oggetto comunicato, il cibo, sia non solo uno dei punti di forza dell’export ma anche uno degli aspetti più vivi nell’immaginario dell’uomo. Tutti i touchpoint (dai megastore, al sito web, alla pubblicità, ecc.) di Eataly sono perfettamente coerenti, dimostrando l’efficacia di una regia attenta. Particolarmente interessante il caso di instant marketing che ha visto protagonisti due calciatori: l’uruguaiano Suarez e l’italiano Chiellini: una comunicazione “nuova”, fresca, all’insegna di quell’attualità culturale di cui parlavamo sopra a proposito del made in Italy. Ossia capacità di fondere in maniera intelligente passato e presente.
Italiano
2014
2014
Ferraresi, Mauro
Bello, buono e ben fatto: il fattore made in Italy
87
117
31
9788868960186
Italy
Milano
Guerini Next
nazionale
A stampa
Settore SPS/09 - Sociologia Dei Processi Economici E Del Lavoro
1
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/10808/10484
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